Spesso sentiamo parlare di cooperative learning (apprendimento cooperativo), una “nuova” metodologia di insegnamento che pone l’accento sulla cooperazione fra Studenti, come strategia funzionale all’apprendimento.

Risfogliando il libro di Cialdini Le armi della persuasione, che ti suggerisco come possibile lettura estiva, sono stato catturato proprio dal suo paragrafo sulla cooperazione: lo studioso americano lo descrive come innesco per il principio di simpatia e quindi come strumento per ottenere maggior consenso da parte dei nostri interlocutori.
Te lo riporto volentieri qui sotto: buona lettura… 🙂

[…] Per capire come funziona un’impostazione cooperativa dell’apprendimento, è utile riesaminare l’affascinante esperienza, vecchia ormai di oltre trent’anni, di Muzafer Sherif. Questo studioso di origine turca, incuriosito e preoccupato dal problema del conflitto fra i gruppi, decise di studiare come si sviluppa questo processo, prendendo come terreno d’indagine una colonia estiva maschile. I ragazzi non si rendevano conto di partecipare a un esperimento, ma Sherif e i suoi collaboratori manipolarono ad arte l’ambiente sociale del campeggio per osservarne gli effetti sui rapporti di gruppo.

Non ci volle molto per produrre certi tipi di malevolenza. Bastò separare i ragazzi in due baracche per ottenere una contrapposizione fra “noi e loro”; assegnando un nome ai due gruppi (le Aquile e i Serpenti) si stimolò ulteriormente la rivalità. Ben presto i ragazzi cominciarono a disprezzarsi a vicenda, ma queste forme di ostilità erano poca cosa in confronto a quello che avvenne in seguito all’introduzione di attività competitive ogni volta che i due gruppi si incontravano: cacce al tesoro, tiro alla fune, gare atletiche, sempre a squadre contrapposte, cominciarono a produrre insulti e scontri fisici. Durante le gare, i membri delle due squadre si davano del “baro”, “truffatore”, “fetente”. Più tardi vennero gli assalti alla baracca nemica, per rubare e bruciare la bandiera e imbrattare le pareti con simboli minacciosi, mentre le risse alla mensa (che era comune) erano all’ordine del giorno.

A questo punto era chiaro che la ricetta per creare disarmonia era facile e rapida: separare i partecipanti in gruppi e lasciarli fermentare nel loro brodo, poi mescolarli alla fiamma di una competizione continua. Il risultato è assicurato: odio tra i gruppi in piena ebollizione.

Più difficile era il compito che ora i ricercatori si trovavano davanti: come eliminare l’ostilità profonda che avevano creato. Per primo tentarono il metodo dei contatti, riunendo i due gruppi più spesso, anche in attività piacevoli come film e gite, ma i risultati erano disastrosi: ai picnic si litigavano il cibo, agli spettacoli facevano a gara a chi urlava più forte, quando erano in fila insieme per la mensa si prendevano a spintoni. A questo punto Sherif e i suoi collaboratori cominciarono a temere di aver creato, come il Dr. Frankenstein, un mostro non più controllabile, ma seppero trovare una soluzione che era insieme semplice ed efficace.

Si incaricarono di costruire una serie di situazione in cui la competizione fra i gruppi avrebbe danneggiato gli interessi di ciascuno, mentre era assolutamente necessaria la collaborazione di tutti. Una volta, durante una gita di una giornata intera, “si scopriva” che l’unico furgone disponibile per andare a far provviste in città non partiva: i ragazzi venivano tutti insieme mobilitati per spingerlo fino a metterlo in moto. Un’altra volta, c’era un’interruzione nelle condotte dell’acqua, che veniva da un deposito lontano: di fronte all’emergenza, rendendosi conto della necessità di un’azione coordinata, i ragazzi si organizzarono per trovare la falla e ripararla. Oppure, un giorno gli sperimentatori informarono i ragazzi che ci sarebbe stata l’occasione di noleggiare un bel film, ma il bilancio economico della colonia non lo permetteva: i ragazzi fecero una colletta fra loro e passarono una serata particolarmente piacevole tutti insieme.

Le conseguenze, benché non istantanee, furono però notevolissime. Gli sforzi congiunti verso scopi comuni colmavano gradualmente la frattura fra i gruppi. Dopo non molto, insulti e spintoni erano andati scomparendo e i ragazzi avevano cominciato a mescolarsi ai tavoli della mensa. Non solo, ma alla richiesta di indicare i loro migliori amici, un numero significativo indicò anche membri dell’altro gruppo, mentre la prima volta gli elenchi contenevano esclusivamente compagni della stessa baracca. Qualcuno anzi, esplicitamente si dichiarò lieto dell’occasione di riformulare il giudizio, perché si era accorto di avere cambiato idea rispetto ai primi giorni. Un episodio rivelatore si ebbe una sera che i ragazzi ritornavano da una gita tutti insieme sullo stesso autobus (cosa che in passato avrebbe provocato un putiferio ma che adesso era stata una loro specifica richiesta): quando l’autobus si fermò a un chiosco di bibite i ragazzi di un gruppo, accorgendosi di avere ancora cinque dollari di loro proprietà nella cassa comune, mentre gli altri li avevano finiti, decisero di offrire da bere agli ex nemici.

Le origini di questa svolta sorprendente si possono far risalire a quelle occasioni in cui i ragazzi avevano dovuto vedersi come alleati anziché come avversari. La procedura cruciale era stata quella d’imporre scopi comuni ai due gruppi: la collaborazione indispensabile per realizzarli aveva permesso infine ai membri dei due gruppi rivali una nuova percezione reciproca, contrassegnata da appoggio, amicizia, aiuto prezioso. Una volta che lo sforzo comune aveva prodotto un successo, diventava particolarmente difficile mantenere sentimenti ostili verso i compagni di squadra, che avevano collaborato alla buona riuscita.

Di nuovo a scuola. In mezzo alle tensioni sociali scatenate dalla segregazione scolastica, certi psicologi dell’educazione hanno cominciato a intravedere la rilevanza che i risultati di Sherif possono avere per i rapporti all’interno della classe. Se si fosse modificata la situazione di apprendimento, dando almeno un certo spazio al lavoro di collaborazione in vista di una riuscita comune, forse avrebbero potuto svilupparsi nuovi rapporti di amicizia fra gli alunni di razza diversa. Sperimentazioni in questo senso sono state portate avanti in vari Stati, ma un modello particolarmente interessante, la classe-mosaico, è stato proposto da Elliot Aronson e dai suoi collaboratori in Texas e California.

In sostanza il metodo consiste nel far collaborare gli alunni nell’acquisizione di nozioni o competenze in vista di un test di profitto programmato per una certa data: si formano dei gruppi di lavoro, dando a ciascuno dei membri solo una parte dei dati – una tessera del mosaico – necessari per superare la prova. Con questo sistema gli alunni devono a turno istruire e assistere i compagni di squadra e ognuno, per riuscire, ha bisogno di ogni altro. Come i campeggiatori di Sherif, invece che rivali devono diventare alleati.

Applicata in classi dove l’integrazione razziale era intervenuta di fresco, la metodologia del mosaico ha dato risultati impressionanti. Ricerche controllate dimostrano che, in confronto alle altre classi della stessa scuola dov’è in vigore il tradizionale metodo competitivo, l’apprendimento a mosaico stimola un clima di maggior amicizia e di minor pregiudizio razziale. Ci sono anche altri vantaggi: oltre alla fondamentale riduzione dell’ostilità, nei gruppi di minoranza migliorano l’autostima, l’interesse per la scuola e i punteggi nei test di profitto. Ma anche per i bianchi ci sono dei vantaggi sul piano dell’autostima e dell’atteggiamento verso la scuola, mentre il rendimento si mantiene almeno pari a quello dei coetanei bianchi nelle classi tradizionali.

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Published On: 19 Giugno 2015Categories: BlogTags: , 0 Comments on Cooperare per apprendere… e non solo!

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