Quante volte abbiamo sentito parlare di PNL? Ormai troviamo questa sigla negli scaffali di qualsiasi libreria e, per giunta, nelle sezioni più disparate: comunicazione, crescita personale, benessere, sport, educazione dei bambini, ecc.
Ma com’è possibile che una sola disciplina venga applicata a tutti questi campi?
La risposta sta nel concetto stesso di Programmazione Neuro Linguistica: la PNL non è un insieme di strumenti (come spesso invece viene descritta ed introdotta ai neofiti del campo). Questa disciplina dal nome così altisonante non è altro che un atteggiamento.
Com’è possibile che si tratti soltanto di un atteggiamento?
Facciamo qualche passo indietro… Quando la PNL nacque, agli inizi degli anni ’70, prese forma proprio dall’atteggimento dei suoi due co-creatori, gli ormai famosi Richard Bandler e John Grinder. Il primo, studente di matematica, coinvolse il secondo, assistente di linguistica presso la stessa università (University of California, Santa Cruz), in un laboratorio davvero interessante. Interessante sia per le attività che vi si svolgevano, sia per le premesse che diedero forma a quel progetto culturale.
Per comprendere ancora meglio i presupposti con i quali vennero messi su i primi gruppi di pratica, bisogna ricordare che Bandler era allora in affitto nella casa di un noto psicoterapeuta, il quale applicava i princìpi della Gestalt Therapy (allora decisamente pionieristici). Il giovane Bandler, nonostante studiasse tutt’altre materie, si dimostrò ben interessato a conoscere ed approfondire il mondo della psicoterapia: si accorse, divorando i libri che affollavano gli scaffali del proprietario di casa, che nella stragrande maggioranza dei casi i manuali descrivevano i sintomi dei disturbi pischiatrici, i possibili decorsi, ma mai (o quasi) delle procedure pratiche e verificabili sul come procedere per risolvere il problema.
Si trattava proprio di questo: come risolvere il problema. Possiamo immaginare che uno studente di matematica fosse naturalmente teso alla ricerca di una soluzione. Questa non sembrava invece il focus della psicoterapia di allora.
Bandler decise di approfondire l’uso della Gestalt e di organizzare veri e propri laboratori per coinvolgere altri studenti: lo fece con l’aiuto di Grinder. Il gruppo di praticanti cominciò a sperimentare strumenti psicoterapeutici decisamente efficaci.
E qual era l’atteggiamento?
L’atteggiamento con il quale Bandler e Grinder portarono avanti il loro lavoro fu caratterizzato da curiosità, apertura ed interesse per la struttura piuttosto che per i contenuti.
Tutto qui?
Esattamente! Immaginiamo cosa può voler dire approcciare ad una nuova disciplina (la psicoterapia nel caso di Bandler e Grinder, ma abbiamo detto in precedenza che i campi di applicazione sono i più disparati) senza seguire necessariamente i canoni imposti dalla disciplina stessa, ma semplicemente affrontarla con un atteggiamento curioso, aperto a nuovi punti di vista e, soprattutto, attento alla struttura di quello che accade, piuttosto che ai contenuti.
Facciamo un esempio: quando Bandler e Grinder cominciarono a studiare l’operato di alcuni importanti terapeuti del loro tempo (che riuscivano ad ottenere risultati eccezionali perché capaci di risolvere in poco tempo i disturbi dei loro pazienti), la loro attenzione venne rivolta principalmente alla struttura dei loro interventi. Nonostante Milton Erickson, Virginia Satir, Fritz Perls (furono i primi ad essere studiati) applicassero tecniche differenti, c’era qualcosa che li accomunava, qualcosa che destò l’interesse metodico di Bandler e Grinder.
Cosa emerse allora?
Si notò una condivisa capacità di gestirsi dal punto di vista emozionale, un’incredibile abilità nell’entrare velocemente in contatto con i pazienti, che riuscivano in questo modo ad affidarsi più facilmente al proprio terapeuta. La comunicazione con sé stessi e con i clienti era flessibile e calibrata sul singolo caso. Anche i movimenti del terapeuta e la sua comunicazione non verbale sembravano studiati certosinamente…
La grande intuizione di Bandler e Grinder può essere racchiusa in una semplice domanda: come ci riesce?
Se fino ad allora si era ritenuto che i “geni” fossero casi eccezionali, dotati di abilità impossibili da replicare dai “comuni mortali”, da quel momento in poi si cominciò a spostare l’attenzione sulle strategie (comportamentali e mentali) adottate da chi eccelleva nel proprio campo.
Questo vuol dire che i geni non sono unici e speciali?
Non proprio. Probabilmente quello che rende unici e speciali i geni è la naturalezza con cui riescono a mettere in atto le proprie strategie… vincenti.
Il fatto che le strategie in questione siano automatiche e per lo più inconsapevoli per chi ottiene risultati eccezionali, non vuol dire che esse non possano essere replicate consapevolmente, fino a raggiungere un buon livello di automatismo.
Se per Erickson era naturale comprendere a fondo il linguaggio non verbale dei propri pazienti, calibrando di conseguenza la propria comunicazione, questo non significa che la sua magistrale abilità non possa essere appresa.
La PNL, insomma, si propone di approcciare ai casi di eccellenza con un atteggiamento attento e curioso, di estrarre le migliori strategie (comportamentali e non) e metterle a disposizione per chiunque sia disposto a mettersi in gioco per migliorare la propria vita (personale e professionale).
Sto leggendo APPUNTI DI PNL PER INSEGNANTI di Michael Grinder, ed ho cominciato a sperimentare la potenza della comunicazione non verbale delle sette gemme nel contesto di classi di scuola media.
Il feedback degli alunni è sorprendente.
Chiara, sono davvero contento che tu stia trovando risultati all’altezza delle tue aspettative… Buon lavoro e continua così! 😉