Condividendo con te questo video, colgo l’occasione per sottolineare un aspetto molto importante del nostro ruolo di Insegnanti-Educatori: il cambiamento.
Noi vogliamo il cambiamento, lo proponiamo ogni giorno ai nostri Studenti, ci impegniamo per stimolarlo, studiamo per innescarlo e supportarlo.
Ogni tanto però, senza saperlo, facciamo qualcosa che paradossalmente blocca la crescita e lo sviluppo dei nostri ragazzi.
Uno degli “errori” più diffusi e, ahimé, più deleteri a cui mi è capitato di assistere tanto nei contesti scolastici, quanto in quelli famigliari (o familiari, che dir si voglia), è l’uso di “etichette linguistiche” per definire alcune caratteristiche comportamentali dei bambini/ragazzi.
Come sappiamo dalla teoria del feedback (già discussa sul sito e della quale è in uscita un mio ebook di approfondimento), mancare di specificità quando si “riprende” qualcuno non contribuisce a correggere il comportamento o l’atteggiamento sbagliato. Il motivo sta proprio nel fatto che, usando un’etichetta (es.: scanzafatiche, pigro, esagitato, iperattivo, maleducato, ecc.) non stiamo facendo riferimento all’azione specifica. Magari nella nostra testa è chiaro il motivo per il quale ci stiamo rivolgendo in quel modo a quella persona, ma non dobbiamo mai dare per scontato che lo sia anche per lei!
Altro aspetto sul quale è opportuno riflettere: è più semplice cambiare un comportamento oppure la propria identità?
Domanda retorica, ovvio: eppure le etichette linguistiche che a volte ci capita di usare si legano proprio all’identità del ragazzo, cioè a chi si sente. Anche per questo motivo, con le migliori intenzioni (spronare, avvertire, rimettere in riga, ecc.) sortiamo gli effetti peggiori (stratifichiamo ancora di più proprio quello che vogliamo invece scardinare).
Soprattutto in alcuni contesti (per esempio quello clinico), le etichette linguistiche vengono adoperate per ragioni di “economicità”: con un singolo termine si fa riferimento ad una serie di comportamenti stereotipati tipici di questa o quell’altra “sindrome”. Nonostante questo, è opportuno tener conto degli effetti di cui abbiamo appena discusso.
Tali effetti sono presenti anche se le etichette si utilizzano esclusivamente fra colleghi (piuttosto che davanti al diretto interessato): in questo caso l’effetto paradosso si viene a creare a causa del fatto che, di fronte a certe “diagnosi”, si finisce spesso per alzare le mani e non sapere da che parte cominciare. Ecco allora che finiamo noi stessi per alimentare la “fissità” di quello che abbiamo intenzione di sbloccare.
Per questo il mio suggerimento è senz’altro quello di ricorrere al supporto di specialisti che “inquadrino” alcune situazioni problematiche specifiche, ma fare in modo che a ciascuna definizione segua sempre una descrizione dettagliata di comportamenti registrabili attraversi i cinque sensi.
Laddove invece non si tratti di patologie o disturbi certificati, ma semplicemente di atteggiamenti poco funzionali che gli Studenti possono mettere in atto, scegliamo di dare un taglio netto alle etichette, dicendo un bel “NO, GRAZIE!”.
E se proprio dovessimo sentire l’esigenza di “accorciare i tempi e rendere l’idea” con un’etichetta che sottolinei certi aspetti, cerchiamo di dire: “Sei un’aquila che in questo momento e in questa situazione (contestualizzazione) si sta comportando da pollo!” (clicca qui per ascoltare la storia dell’aquila che credeva di essere un pollo).
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Facilmente si sbaglia anche si hanno buono propositi, piu’ difficile è riconoscere l’errore e porre rimedio…
riflettere e mettersi nei panni dell’altro forse può essere un punto di partenza